SUGGESTIONI D’ITALIA
- Mostra
- 13 Luglio 2018 - 23 Settembre 2018
a cura di Riccardo Passoni
La GAM di Torino presenta una mostra di oltre 100 fotografie, realizzate dalla fine del secondo dopoguerra ai primi anni Duemila, che raccontano l’Italia per immagini: il paesaggio e le città della nostra penisola esplorati da 14 grandi fotografi, sia nell’architettura sia nella loro dimensione umana e sociale. Le foto, in bianco nero e a colori, sono selezionate con l’intento di scandagliare l’interpretazione degli ‘esterni’, dall’arco alpino e le grandi città come Torino e Milano, per proseguire lungo la dorsale emiliana fino a scendere verso il Sud, tra Napoli, Matera, e infine toccare la Sicilia.
Paesaggi, luoghi, e anche i cosiddetti non-luoghi fanno parte di questa carrellata.
La decisione di presentare questa esposizione alla GAM nasce dalla volontà di tornare a focalizzare l’attenzione del museo sul tema della fotografia, tralasciato dalla programmazione da circa dieci anni, ma che costituisce un indubbio supporto di valore per le nostre collezioni. A cavallo del 2000 infatti, la GAM prima, e la Fondazione CRT per l’Arte Contemporanea in seguito, avevano costituito una ragguardevole collezione di fotografia dal secondo dopoguerra in avanti. Quasi tutti i grandi nomi di questo linguaggio sono entrati a far parte delle nostre collezioni.
Ai primi ‘reportage’ in ambito di Neorealismo e alle documentazioni politiche si affiancano distillati di paesaggio italiano e letture di alto formalismo, come di ricerca di una apparentemente semplice verità ottica di documentazione dell’architettura. Questa mostra ha l’intento di trasportare il visitatore in un continuo alternarsi di sensibilità e di atmosfere, intense e differenti, facendo emergere in filigrana una prospettiva storica-temporale delle interpretazioni del soggetto-paesaggio. Narrazioni antiretoriche che lasciano spazio a nuove retoriche dell’immagine, senza distinzione tra fotogramma catturato al volo e situazioni accuratamente studiate.
Nelle fotografie di Nino Migliori (Bologna, 1926) prevalgono i luoghi e i segni dell’uomo. Le sue immagini sui soggetti deboli sono costruite con una intenzione sapientemente narrativa. È forse il fotografo che prima di tutti ha saputo interpretare la forza del Neorealismo.
Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, GE, 1930) sembra appartenere allo stesso ordine di attenzioni: nel condurre l’obiettivo della macchina fotografica sui temi del disagio, della arretratezza sociale, in una dimensione di straordinaria epica popolare.
Sui temi di un ritardo arcaico, sulla soglia dell’umiltà, si cimenta anche in seguito Mario Cresci (Chiavari, GE, 1942) sia pure in una investigazione più marcatamente concettuale. Territorio e memoria sono indagati dal punto di vista dell’uomo come dei luoghi di lavoro, le cave.
Mimmo Jodice (Napoli, 1934) ha saputo interpretare, in bianco e nero, in maniera al contempo semplice e intensa, sia paesaggi minori sia luoghi ad alta intensità culturale e monumentale. Ciò è avvenuto nella proposizione di temi del sud e anche nelle incursioni nel nord dell’Italia.
Anche Mario Giacomelli (Senigallia, AN,1925 – 2000) fissa l’attenzione sulla cultura ‘bassa’, collegandosi soprattutto alla indagine sulla campagna. Da qui si innesta però una stupefacente rilettura formale, ad altissimo potenziale, dei campi governati dall’uomo, sfruttando al massimo le capacità del bianco e nero.
Sullo stesso orizzonte paesaggistico si è cimentato Franco Fontana (Modena, 1933), solo portando la sua ricerca sul versante di un colore trionfante, forte, di alta – per l’epoca – eccitazione cromatica. Un colore che è stato tuttavia letto in chiave mentale, inteso a portare la naturalità dei soggetti in una dimensione astraente.
Di tutt’altro segno è la fotografia a colori inaugurata da Luigi Ghirri (Scandiano, RE, 1943 – Roncocesi, RE, 1992). I suoi paesaggi ‘vuoti’, quasi non sfiorati dalla presenza umana, ci impongono un nuovo sguardo sulle cose, architetture e paesaggi. Dai suoi scatti emerge un sentimento invincibile di mistero, che ci proietta in una nuova dimensione di interpretazione del mondo.
Questa considerazione vale anche per le straordinarie fotografie – ma in bianco e nero – di Ugo Mulas (Pozzolengo, BS, 1928 – Milano, 1973). I suoi paesaggi ci obbligano a guardare in maniera diversa i soggetti, ci danno la vertigine per quel che non avevamo saputo vedere in essi prima di adesso. Ciò vale anche per la sua indagine sulle periferie brumose della città industriale, che assumono, paradossalmente un forte, inedito, fascino.
Il bianco e nero è strumento necessario anche per dare forza alle immagini di Uliano Lucas (Milano, 1942). La sua è una fotografia, infatti, di denuncia, perché riguarda la dimensione urbana e industriale, dove però è l’uomo a costituire il dato prevalente: la sua fotografia registra lotte e sofferenze, collocate in una dimensione collettiva.
Sono in bianco e nero anche le fotografie di Ferdinando Scianna (Bagheria, PA, 1943). Le persone che ritrae ci inducono a considerare i luoghi in una dimensione antropologica. Queste immagini, come quelle di paesaggio, vivono di contrasti: sole-luce /buio, in una visione quasi abbacinante.
Di Gabriele Basilico (Milano, 1944 – 2013) colpisce la oggettività concettuale del suo bianco e nero in cui emergono dai suoi scatti le architetture e il vuoto. La dimensione è urbana, periferica ma non solo. La regola delle geometrie, specialmente perfette, ci introduce a un nuovo ordine di considerazioni sulla natura dell’architettura e del suo potenziale connotante il paesaggio contemporaneo.
Anche le fotografie dedicate all’Abbazia di San Galgano di Aurelio Amendola (Pistoia, 1938) sono consapevoli del significato di volumi e pesi dell’elemento architettonico. Esterni, Interni, dettagli sono interpretati con religiosa semplicità.
Enzo Obiso (Campobello di Mazara, TP, 1954) lavora sul potenziale del bianco e nero. La sua Sicilia solare non ne esce affatto ridimensionata, ma anzi i suoi luoghi aumentano il potenziale di mistero, di apparizioni sorprendenti.
Il colore controllato degli scatti di Bruna Biamino (Torino, 1956) ci porta lontano, in una sorta di sogno lattiginoso. Architetture, paesaggi disadorni, luoghi d’acqua, alludono alla sospensione e al vuoto e contengono, al contempo, uno stato di concentrazione e di spaesamento indissolubili.
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