Monica Carocci
- Mostra
- 16 Novembre 2001 - 16 Dicembre 2001
Continua il programma di anteprime della Videoteca GAM.
A termine di questo primo anno di mostre che ha visto protagonisti artisti dell'area torinese, si presenta l'ultimo lavoro di Monica Carocci, un'istallazione che l'artista ha ideato appositamente per gli spazi della Videoteca.
Due sono i principi di realtà che si sono succeduti uno all'altro nel percorso storico che ha portato dalla fotografia al cinema e successivamente al video: la realtà dell'immagine e la realtà del tempo. Alla fisicità della carta fotografica corrisponde il tempo unitario dello scatto, mentre alle impalpabili ombre elettroniche del nastro magnetico, il tempo solido delle riprese real time, ma i molteplici percorsi di ritorno e modificazione delle tecniche di base tracciati dalla ricerca artistica dell'ultimo decennio hanno portato ad una continua alternanza di dominio di questi due principi. I video realizzati da Monica Carocci negli ultimi anni mettono a nudo l'importanza del supporto e la sua presenza materiale. La striatura del segnale televisivo è ribadita e amplificata da molteplici passaggi di registrazione che fanno del video finale un palinsesto di pellicole filmiche trasmesse da un televisore, successivamente riprese da una telecamera e infine proiettate. Quattro passaggi che compongono i video per ispessimento progressivo, dove l'immagine si fa via via più corporea come in una pittura materica, per successivi strati di colore, mentre il principio di realtà del tempo, si fa più fragile, sfogliandosi nei tempi conclusi dei singoli passaggi. Per la Videoteca GAM Monica Carocci ha realizzato un'istallazione in cui l'immagine di un'imponente struttura architettonica in fase di costruzione viene illuminata da lampade al wood. La forza del principio di realtà dell'opera è intensificata fino alla trasformazione dell'impalpabile immagine, video visibile solo per proiezione, in una corporea immagine di carta visibile per riflessione. È il tempo dunque a dover indietreggiare. La durata, qualità intrinseca del video, già ripiegatasi su se stessa nella scelta del loop sempre più frequente nella produzione video degli ultimi anni, in questa installazione recede fino al proprio grado zero, coincidente con la mera percezione soggettiva. La dimensione temporale di quest'opera è tutta nel ronzio dei bianchi accesi nel buio, evaporati dalla carta, in mobile sospensione verso l'osservatore, mentre i neri, come solchi, arretrano oltre lo sfondo. È proprio questa instabilità vibrante dell'immagine nel reagire alla luce di wood, a creare lo spazio percettivo della durata. Alla profondità creata dalla luce si contrappone l'effetto unitario di superficie dato alla stampa fotografica dai molti ritocchi e dalle cancellazioni al ferro cianuro, interventi manuali che hanno corroso le linee pulite della struttura architettonica sporcandone i contorni, compenetrando il bianco e il nero in un unitario piano pittorico. Questa oscillazione fatta di leggeri vacillamenti di posizione muta nella percezione del rapporto tra figura e sfondo le familiari nozioni di stasi e movimento riformulando la natura dell'immagine fotografica e i confini tra differenti media.
Il complesso intreccio di relazioni tra immagine e tempo è già tutto nella scelta dell'architettura come oggetto della fotografia. Sono le architetture fatte di strutture scarnificate che a più riprese tornano nelle opere di Monica Carocci, ma in questa occasione la scelta implica di necessità un rimando alle molteplici valenze temporali che l'architettura ha avuto nell'arte dei secoli passati e in modo ancor più specifico la centralità di geometrie fatte di linee verticali, orizzontali e diagonali che si incrociano nel vuoto creando spazi instabili di percezione tra interni ed esterni mai pienamente chiusi o aperti. È attraverso l'intreccio di diagonali delle ante traforate che si ha accesso nelle tarsie quattrocentesche al tempo eterno di poliedri stellati, al tempo simbolico di clessidre e fiori, al tempo fermato di pagine sfogliate, rimaste ricurve e sospese nell'aria. Al di qua di quelle ante resta il tempo prospettico, congelato e iperreale. Ed è sempre attraverso l'incrocio di diagonali di una balaustra verde sui bianchi vaporosi di un vestito che nel Balcone di Manet si anima un movimento ritmico che porta dalla stasi di un interno domestico al movimento immaginato dello spazio urbano e da questo ritorna a quella, tracciando come nell'istallazione di Monica Carocci l'arco di un pendolo percettivo che apre l'immagine al tempo. Così come in entrambe le opere l'architettura è figura del tempo storico, quello di una prima modernità affacciata sulla vita dei boulevards nell'opera di Manet e quello di una modernità industriale ormai estenuata nell'opera di Monica Carocci, dove la struttura appena eretta di un nuovo capannone non si distingue troppo dallo scheletro di un edificio abbandonato assumendo le sembianze del futuro e insieme del passato.
Elena Volpato
A termine di questo primo anno di mostre che ha visto protagonisti artisti dell'area torinese, si presenta l'ultimo lavoro di Monica Carocci, un'istallazione che l'artista ha ideato appositamente per gli spazi della Videoteca.
Due sono i principi di realtà che si sono succeduti uno all'altro nel percorso storico che ha portato dalla fotografia al cinema e successivamente al video: la realtà dell'immagine e la realtà del tempo. Alla fisicità della carta fotografica corrisponde il tempo unitario dello scatto, mentre alle impalpabili ombre elettroniche del nastro magnetico, il tempo solido delle riprese real time, ma i molteplici percorsi di ritorno e modificazione delle tecniche di base tracciati dalla ricerca artistica dell'ultimo decennio hanno portato ad una continua alternanza di dominio di questi due principi. I video realizzati da Monica Carocci negli ultimi anni mettono a nudo l'importanza del supporto e la sua presenza materiale. La striatura del segnale televisivo è ribadita e amplificata da molteplici passaggi di registrazione che fanno del video finale un palinsesto di pellicole filmiche trasmesse da un televisore, successivamente riprese da una telecamera e infine proiettate. Quattro passaggi che compongono i video per ispessimento progressivo, dove l'immagine si fa via via più corporea come in una pittura materica, per successivi strati di colore, mentre il principio di realtà del tempo, si fa più fragile, sfogliandosi nei tempi conclusi dei singoli passaggi. Per la Videoteca GAM Monica Carocci ha realizzato un'istallazione in cui l'immagine di un'imponente struttura architettonica in fase di costruzione viene illuminata da lampade al wood. La forza del principio di realtà dell'opera è intensificata fino alla trasformazione dell'impalpabile immagine, video visibile solo per proiezione, in una corporea immagine di carta visibile per riflessione. È il tempo dunque a dover indietreggiare. La durata, qualità intrinseca del video, già ripiegatasi su se stessa nella scelta del loop sempre più frequente nella produzione video degli ultimi anni, in questa installazione recede fino al proprio grado zero, coincidente con la mera percezione soggettiva. La dimensione temporale di quest'opera è tutta nel ronzio dei bianchi accesi nel buio, evaporati dalla carta, in mobile sospensione verso l'osservatore, mentre i neri, come solchi, arretrano oltre lo sfondo. È proprio questa instabilità vibrante dell'immagine nel reagire alla luce di wood, a creare lo spazio percettivo della durata. Alla profondità creata dalla luce si contrappone l'effetto unitario di superficie dato alla stampa fotografica dai molti ritocchi e dalle cancellazioni al ferro cianuro, interventi manuali che hanno corroso le linee pulite della struttura architettonica sporcandone i contorni, compenetrando il bianco e il nero in un unitario piano pittorico. Questa oscillazione fatta di leggeri vacillamenti di posizione muta nella percezione del rapporto tra figura e sfondo le familiari nozioni di stasi e movimento riformulando la natura dell'immagine fotografica e i confini tra differenti media.
Il complesso intreccio di relazioni tra immagine e tempo è già tutto nella scelta dell'architettura come oggetto della fotografia. Sono le architetture fatte di strutture scarnificate che a più riprese tornano nelle opere di Monica Carocci, ma in questa occasione la scelta implica di necessità un rimando alle molteplici valenze temporali che l'architettura ha avuto nell'arte dei secoli passati e in modo ancor più specifico la centralità di geometrie fatte di linee verticali, orizzontali e diagonali che si incrociano nel vuoto creando spazi instabili di percezione tra interni ed esterni mai pienamente chiusi o aperti. È attraverso l'intreccio di diagonali delle ante traforate che si ha accesso nelle tarsie quattrocentesche al tempo eterno di poliedri stellati, al tempo simbolico di clessidre e fiori, al tempo fermato di pagine sfogliate, rimaste ricurve e sospese nell'aria. Al di qua di quelle ante resta il tempo prospettico, congelato e iperreale. Ed è sempre attraverso l'incrocio di diagonali di una balaustra verde sui bianchi vaporosi di un vestito che nel Balcone di Manet si anima un movimento ritmico che porta dalla stasi di un interno domestico al movimento immaginato dello spazio urbano e da questo ritorna a quella, tracciando come nell'istallazione di Monica Carocci l'arco di un pendolo percettivo che apre l'immagine al tempo. Così come in entrambe le opere l'architettura è figura del tempo storico, quello di una prima modernità affacciata sulla vita dei boulevards nell'opera di Manet e quello di una modernità industriale ormai estenuata nell'opera di Monica Carocci, dove la struttura appena eretta di un nuovo capannone non si distingue troppo dallo scheletro di un edificio abbandonato assumendo le sembianze del futuro e insieme del passato.
Elena Volpato